Ti hanno mai detto “Ahó, che pizza!”?

Se vivi a Roma (ma anche fuori, ormai) ti sarà sicuramente capitato di sentirtelo dire da qualche amico, o magari di dirlo a qualcuno in un momento di scarso entusiasmo, noia o insomma…quando hai avvertito un senso di pesantezza.

“Ahó, che pizza!”

Come dire “sono stufo” o “che rottura!”.

L’origine del detto è del tutto incerta, ma tra le varie ipotesi c’è quella secondo cui in passato la pizza era considerata una pietanza difficile da digerire, pesante, causa di gonfiori di stomaco e sete notturna.

E infatti a chi non è capitato, dopo una serata tra amici in pizzeria, di tramutarsi durante la notte in un cammello ruggente e sognare di prosciugare a lunghe sorsate oasi senza confini?

Ti sei mai chiesto il perché?

Evitando di prendere in esame i casi di ingordigia (se mangi pizza e tricheco, bevi dodici litri di bibite gassate e poi accusi gonfiore probabilmente il problema non è la qualità della cucina) molte persone ritengono di non poter digerire la pizza in senso assoluto:

– per via dei lieviti;

– per la qualità dell’impasto;

– perché ritengono eccessiva un’intera pizza (intesa come pizza tonda).

In merito al primo punto è opportuno sfatare una falsa credenza piuttosto radicata: nessuna pizza, neanche la peggiore, può proseguire la lievitazione all’interno dello stomaco. I lieviti muoiono ad una temperatura massima di 60 gradi, quindi non è ad essi che va imputata la responsabilità della metamorfosi umano-mongolfiera.  

Una inadeguata maturazione dell’impasto, invece, può avere una serie di conseguenze che messe insieme conducono spesso agli scenari sopra descritti.

Va infatti evidenziato un dettaglio tecnico rilevante ovvero la distinzione tra lievitazione e maturazione.

La prima consiste semplicemente nell’aumento di volume dell’impasto: i lieviti si nutrono degli zuccheri presenti nella farina e producono l’anidride carbonica che, grazie alla maglia glutinica, viene trattenuta permettendo all’impasto di gonfiarsi.

La maturazione, invece, è il vero processo protagonista se il fine è quello di ottenere un impasto digeribile.

Questa consiste in una semplificazione dei macronutrienti contenuti nell’impasto ovvero, principalmente, nella scissione delle proteine (glutine) in amminoacidi semplici e nella scomposizione dell’amido in glucosio.

Gli attori principali di questo procedimento sono gli enzimi (amilasi e proteasi) presenti e operativi all’interno dell’impasto, che hanno appunto il ruolo di catalizzatori.

Senza entrare ulteriormente in dettagli tecnico-scientifici, si può concludere affermando che attraverso un attento processo di maturazione, si avrà un ottimo presupposto per un prodotto appetibile, fragrante e gradevole non solo per il palato, ma anche per lo stomaco. 

Ma come otteniamo in termini pratici la maturazione dell’impasto?

Cercando di coordinare lievitazione e maturazione che, come abbiamo chiarito poche righe sopra, sono due processi ben distinti che avvengono con tempistiche molto diverse. La lievitazione si innesca in tempi piuttosto brevi o addirittura brevissimi se l’impasto risiede in ambienti caldi. La maturazione invece difficilmente si completa in meno di 18 – 24 ore; tempistiche variabili in relazione a qualità e forza proteica delle farine.

In pratica, quindi, per allineare i due processi sarà necessario rallentare l’azione dei lieviti utilizzando uno dei migliori amici dei tempi moderni: il frigorifero.

La lievitazione infatti, così come accelera (o addirittura degenera) con il calore, rallenta se l’impasto viene lavorato e conservato a temperature basse. La temperatura ottimale per l’allineamento della maturazione con la lievitazione è di 4 gradi centigradi e la tempistica media per l’ottenimento di un prodotto ottimale è di 36 – 48 ore. 

Attenzione! Si parla di tempistica media: non c’è motivo di diffidare a prescindere se un impasto viene gestito con tempistiche inferiori. 

Non dimentichiamo che alla fine di tutto i giudici che contano davvero sono il nostro palato e il nostro stomaco, e non un cartellone pubblicitario che millanta lievitazioni secolari.

E a proposito di stomaco, giungiamo al tema della quantità.

Quanta pizza mangiare?

Partiamo dal presupposto che una pizza tonda senza alcun condimento pesa mediamente 250 grammi. Non poco per uno stomaco medio!
Se a questo aggiungiamo i condimenti, dal pomodoro e mozzarella della classica margherita alle fantasie più sconfinate della cucina creativa, il peso complessivo della pietanza va da 300 grammi a infinito.

Se state pensando che invece digerite benissimo il pane, provate a mangiarne 250 grammi insieme al companatico che preferite e poi ne riparliamo.

Ecco perché molte persone ritengono che un’intera pizza sia troppo da digerire.
Tuttavia è una pietanza che tende ad essere consumata molto rapidamente, per gola e perché si teme il raffreddamento e la conseguente perdita del gusto: legittimo.
Molti di noi riescono quindi a finire la pizza prima che sopraggiunga il senso di pesantezza.

È dunque evidente quanto la qualità dell’impasto giochi un ruolo fondamentale per il consumo di questa pietanza simbolo della nostra tradizione culinaria.

In conclusione se intendete mangiare la pizza serenamente, iniziate seguendo questi tre semplicissimi consigli:

  • Cercate di assicurarvi della qualità dell’impasto
  • Stabilite una frequenza di consumo adeguata
  • Se ritenete eccessiva la porzione standard, provate a chiedere un formato ridotto, oppure non vergognatevi a lasciare la parte in eccesso (potete sempre portarla via e consumarla il giorno dopo)

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